L’horror si lascia nuovamente padroneggiare dal rigore stilistico e formale di Oz Perkins, noto regista contemporaneo per due motivi principali:
- la sua predisposizione a un modus operandi cinematografico che si accosta alle logiche produttive indipendenti e agli schemi non convenzionali
- Egli è il figlio di Anthony Perkins/Norman Bates, figura hitchcockiana di grande rilievo per la manifestazione di disturbi schizofrenici, la presenza della madre castratrice e il superamento mostruoso dei problemi di genere.
Ciò che suggerisce sin dall’inizio Longlegs è la rappresentazione dell’analessi in formato 4:3, in un’ambientazione claustrofobica e sommersa dalla neve per indicare uno smarrimento mnemonico, che necessita di una graduale indagine investigativa, caratterizzata principalmente da epistole criptiche e indecifrabili, nello spazio rettangolare del presente e nella geografia desolato di un Oregon zonizzato e gentrificato.
L’agente speciale Lee Harker (Maika Monroe) sfrutta le sue doti di sensitiva (ereditate da un accadimento traumatico) per risolvere il caso e sospetta, recepito in ambito spettatoriale attraverso questa costruzione sintattica del tempo, un possibile legame connettivo con il serial killer (Nicolas Cage), modellato come un’identità transitoria in termini diegetici ed extradiegetici.
Le sue origini si rivelano pian piano con il tema del doppio, profondamente articolato tra l’essere mortale e l’essere sovrannaturale, in molteplici corpi posseduti e nella forza oscura dietro gli eventi socioculturali del familicidio e del femminicidio. Inoltre l’impatto orrorifico di Longlegs si allarga con una celebrazione antitetica tra la religione cristiana e le pratiche vudù.
Viene ripreso anche il nucleo familiare come movente disfunzionale e disgregatore della Verità nascosta, in particolare la relazione conflittuale madre-figlia, con aspetti stregoneschi di Carrie – Lo sguardo di Satana (1976) di Brian De Palma e all’interno dei quali si assiste a un rovesciamento e alla servilità satanista di Ruth Harker. Per non dimenticare quella figura simbolica che sta ormai perdendo le sue affermazioni consolidate e il suo primato gerarchico: il Padre.
Longlegs è quell’incubo irrisolto che non danneggia l’esistenza di una singola vittima sopravvissuta, ma la rende svelatrice di una frustrazione psichica e repressa che aleggia nel territorio suburbano, che ci costringe ad avanzare lo sguardo per penetrare segreti invisibili agli occhi dell’immobile quotidianità, suggellata nel corpo inanimato della bambola e liberata nel plumbeo gassoso del suo cervello.
Longlegs è il mondo dell’abbandono: i suoi abitanti sono destinati a incrociare la volontà del Male e a lasciarsi scatenare in quegli istinti aggressivi, collocati nel fuoricampo e fortemente contestualizzati con l’attualità, sebbene la narrazione si alterni temporalmente tra gli anni ’70 e gli anni ’90 (dimostrando al tempo stesso una segretezza dolorosa dell’anima).
Longlegs è una fiaba odierna che rimescola le vecchie tradizioni letterarie e popolari per attraversare quell’intermezzo “magico”, presentato tramite il MacGuffin della bambola e che marca i campi/controcampi, chiarisce le nostre fascinazioni contemplate, immortala e zooma la nostra discesa nella triangolazione familiare.
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