“Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”, scriveva Louis-Ferdinand Céline, presumibilmente intorno agli anni Trenta del secolo scorso, interrogandosi sull’umanità.
Ora questa citazione del suo manoscritto, dal titolo “Guerra”, ritorna nell’esergo che precede l’incipit di Parthenope.
A vent’anni da “Le conseguenze dell’amore” (2004) Paolo Sorrentino esordisce con il suo decimo lungometraggio di finzione. Le anteprime di mezzanotte di Parthenope (2024), che si susseguono in molti cinema della penisola, donano all’esperienza della visione in sala una ritualità che riduce le distanze e che sembra riuscire a connettere il sentire degli spettatori più giovani che si trovano ad assistervi, ogni giorno, in città diverse, nello stesso momento.
“Il potere è rituale oltre che essere codificatore, ma ciò che ritualizza e ciò che codifica è sempre il nulla”, affermava Pier Paolo Pasolini esprimendosi su Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Il potere è rituale anche in Sorrentino, quando Parthenope sembra perdersi nella notte, per quei vicoli di Napoli, che riconducono al nulla. E poi, nuovamente, tra le acque del mare, alla sua origine.
Il potere è rituale, ma la bellezza è potere?
Parthenope è gioventù e antichità insieme. Una donna sempre più umana, nell’intensità del dolore e della disillusione sul potere della sua bellezza, e, al contempo, sempre la stessa, riconoscibile – anche dopo quasi cinquant’anni dalla sua prima vissuta emersione dal sale – nel suo identico sospiro.
“Forse non mi sono fatta le domande giuste”, afferma Parthenope. Ma una divinità non dubiterebbe. Parthenope, seppur di divina bellezza, è umana ed entra nell’età adulta, ma – rispetto a molte comparse – è propensa al fallimento.
“A cosa stai pensando?”, è il leitmotiv del flim e prima connessione tra passato e presente. È anche una domanda che si ripete e che ruota attorno alla percezione che gli altri personaggi hanno di Parthenope. I suoi genitori, suo fratello Raimondo (soffio di vita, colui che “sa tutto”), il suo “primo amore” Sandrino, un omonimo John Creever (lo scrittore), un vescovo o truffatore, due attrici specchio della tristezza, il professor Marotta, e altre comparse che, però, nell’economia del film, di comparsa sembrano avere ben poco.
Due potrebbero essere gli esempi calzanti: l’uomo con l’elicottero dello svilimento e un giovane uomo particolarmente interessato a una traumatica fusione tra famiglie.
Ad ogni modo ciascun personaggio o comparsa forgia Parthenope, come accade nella vita. Dal piccolo dettaglio della ripetizione dell’inchino di una delle attrici che si affiancheranno temporaneamente al suo percorso, a chi intercetta – per primo – la fragilità, dall’esterno, a chi comprende che interrogarsi avendo come punto di partenza un senso di colpa non possa giovare.
“A cosa stai pensando?”
“L’amore per sopravvivere è un fallimento”.
Non basta essere innamorati tutta la vita di Parthenope. Perché? “Perché Parthenope sfugge”. E allora? E allora sarebbe meglio non giudicarsi a vicenda.
Prima di questo patto, però, alcune “idee balorde” si innescano dallo scontro tra quei conflitti che sembrano essere generati da due flussi di potere distinti. Da una parte, ad esempio, una mascolinità banale e per questo molto credibile che mina Parthenope nel suo rifiuto: “Non sei poi tutta questa cosa. Non sei intelligente”. Dall’altra, invece, un’immediatamente successiva gratificazione esterna: “Parthenope sei una diva”. Una rassicurazione, però, che si attenua sempre di più nel racconto ma che non esclude la possibilità di trasformarsi attraverso il tempo e lo spazio.
“Cos’è l’antropologia?”, chiede Parthenope.
Questo film, attraverso Parthenope, chiede in primis due cose allo spettatore: di essere attivo e di lasciarsi andare.
Chi non riesce a sentire “l’odore degli amori” passati potrebbe pensare che la fatica è solo la sua, oppure potrebbe non cogliere la preziosità di quel che può contenere anche un solo attimo di giovinezza.
Dalla caratterizzazione dei personaggi, talvolta esauditi in breve nel film, poiché è tale con loro l’esperienza di Parthenope, molte delle scelte stilistiche del regista non lasciano pensare che si tratti di puro virtuosismo. O quanto meno, mai, di un virtuosismo fine a se stesso. Quanto, invece, desideroso di applicare ad esso lo sfaccettato bagaglio emotivo della protagonista, i suoi incontri, molto realistici, e le domande, talvolta molto astratte, e forse per questo anche molto poetiche, della sua vita.
Le inquadrature, al contempo, oltre a voler fermare l’attimo – con un intenso focus sui personaggi immersi nel loro mondo – colgono, sui panorami interni, esterni, o fluttuanti, della città quella vastità a cui sembrava eludere Céline nell’esergo. E questo avviene coerentemente, dall’inizio alla fine, sin dalle prime due scene salmastre d’apertura.
Parthenope, con lo sguardo che riflette questi suoi pensieri, così colmi di pensiero, è abituata a salire sulla sua carrozza in stile francese, sin dalla nascita, e a viaggiare cercando, per dire degli altri, sempre la risposta giusta. Lei, però, sente di non sapere nulla.
Il viaggio, per Parthenope, cambia – quasi senza che se accorga – attraverso il suo rapporto con la morte, e poi – ancora – gradualmente quando, consapevole, entra nell’età adulta. Questo avviene, però, nella maggior parte del tempo sotto lo sguardo e la sempre più evidente incomprensione degli altri.
Tutti, probabilmente, tranne il fratello, lo scrittore americano e il professore.
Tutti e tre questi personaggi, infatti, dicono cose che possano aiutare Parthenope a porre: “le domande giuste”. Anche se lei stessa sembrerà non averne mai la certezza di averle individuate fino in fondo.
È lì, allora, che dovrebbe intervenire il nostro ruolo di spettatori attivi.
Immedesimarsi, forse, nella visione superficiale di questa storia – senza trama, poiché è un po’ come la vita – non rischierebbe altrimenti di collocare tutti noi in spettatori passivi, sia di Partenope, che del film?
Sono molte le cose tragiche in questo lungometraggio. Ma l’elogio alla gioventù e al VEDERla da fuori, come se fosse stato solo un soffio, è indicativo del fatto che non è soltanto un caso se le sensazioni suscitate dalla visione rimangano come aggrappate addosso allo spettatore anche a molte ore di distanza da essa.
Quella nostalgia, quella velata e talvolta compiaciuta solitudine, diventa anche dello spettatore. E il fatto che possa percepirsi una visione superficiale, quasi pubblicitaria della bellezza, secondo me ha senso solo dal momento che si riesca a riconoscere, o ad ammettere, che quello è l’occhio da cui Parthenope, fraintesa sin dall’inizio della primavera, da molti personaggi comparsa, si sente trapassata.
Riflettete, io nel frattempo ringrazio per la visione e continuo a pensare: “a l’ultima cosa che si impara.”
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