Festa del Cinema di Roma 2024

Italo Calvino nelle città (2024)

Avatar Giada Ciliberto

Che differenza c’è tra raccontare e far vedere? Oppure tra vedere e vedere quello che si è visto? 

Quanta essenza passa tra quello che si è visto e quello che si lascia vedere – di quel che si è visto – per farlo vedere nell’oggi? 

Italo Calvino nelle città (2024) potrebbe essere considerato un film (più che un documentario) che desidera “emozionare” lo spettatore più che “spiegare” chi era lo scrittore, non indugiando, quindi, nel tentativo di soffermarsi su alcuni – più o meno importanti – dettagli della sua biografia. 

L’immaginario delle Città Invisibili viene stratificato in viaggio, con Calvino e le sue opere, sempre diverse una dall’altra, grazie al disvelamento di ampi spazi vuoti che esistono nella realtà. 

Sono luoghi specialmente torinesi, e che noi – dunque – possiamo riconoscere, pur avendo, al contempo, il privilegio di viverli come luoghi astratti, come attraversabili, quindi, a partire dal vuoto che vi è tra un punto e un altro. 

Tutte le città sono uguali (?)

Lo spettatore assiste all’attraversamento delle città da parte di tre personaggi, ciascuno di essi – nelle vesti di un alter ego calviniano – abita la scena mentre abbraccia tre differenti fasi della vita dello scrittore, e mentre è costantemente affiancato da quella che sembra essere la personificazione di ciascuna di queste città, nonché la loro anima nell’attraversamento, e che è quindi possibilmente riconoscibile in un’anima collettiva, ma anche nella mente, nel pensiero, dello scrittore. Ed è allora che un quesito potrebbe sorgere spontaneo nella visione. 

La donna che parla è, allora, la scrittura stessa?

O meglio, potrebbe essere considerata la scrittura attraverso cui Calvino parla a noi ancora oggi? O con cui lo scrittore arriva a parlare a noi, immergendosi anch’esso, attraverso di essa, nell’illusione filmica?

“Usare le parole di Calvino”, è una scelta non causale per Davide Ferrario, che non desidera spiegare quel contrasto inscindibile, tra depressione e ironia, in cui appare la vita e dove talvolta sembra necessario perdersi, oppure mostrare il flusso delle memorie senza porsi un reale obiettivo, così da non doversi fermare. Proprio come sarà Calvino a suggerire – in gioventù – allo spettatore, parlando dell’azione che gli è sempre piaciuta più dell’immobilità, “la volontà più della rassegnazione” e “l’eccezionalità più della consuetudine.”

Si tratta per Calvino, come per noi che possiamo seguirlo – nel film – tra le sue opere, di non fare appello a un flusso razionale, che si avverte già da sé, per sentire – invece – come lui, per guardare “le cose lontane come vicine, e le cose vicine come lontane”. 

Se il caos del mondo è risolvibile solo attraverso uno stile, i tre attori che inizialmente ci appaiono quasi come se non fossero nel “giusto” contesto, trovano anch’essi invece, passo dopo passo, come manifestare il loro stile nello svelamento di Calvino che, nel frattempo, guardandoci – guardando in camera – ci ricorda quel suo andare ogni giorno al cinema per vedere il mondo (o, a questo punto, i mondi possibili). 

Il suo, aver letto, essersi occupato degli “altri libri per diventare uno scrittore tardi” sembra illuminare retrospettivamente, nel corso della visione, l’importanza che ha avuto, nel film di Davide Ferrario, proprio la ricerca dei materiali d’archivio. 

Nel frutto filmico, ossia in quel che genera quel non dover aver fretta, nella creazione, di produrre sempre di più, ma di dare piuttosto il giusto spazio, il giusto tempo, alla ricerca delle fonti e alla selezione di queste ultime, si accede anche alla loro rappresentazione, quindi – stavolta – nuda e fantastica, come le città.

Il film spazia tra passato e presente da Torino, Mondovì, a Roma, New York, Parigi, e alla Toscana – alla pineta, al mare, allo sguardo di Italo Calvino, per il suo scrivere e per i suoi lettori.

La descrizione aperta, nel presente del film, delle tegole di Roma, ad esempio, sembra contrapporsi, agli occhi, al ricordo, dello spettatore, alle onde descritte da Italo Calvino all’inizio di Palomar.

Mentre il passato e il futuro sembrano quindi dialogare nel presente, tra le torri di corallo, Calvino ci mostra i suoi silenzi e il (suo) desiderio di dar voce a ciò che non può parlare.

Attraverso i suoi occhi, all’alba del postmoderno – possiamo vedere quel che rende preziosa, quanto già è dapprima, e ancora nel film, come atto di conservazione e di creazione insieme, la visione di Calvino. Un passato che, però, nel riviverlo, è anche presente e futuro. 

Ai suoni delle città, alle voci, un altro elemento accompagna lo spettatore. Quell’elemento della musica, come la “canzone triste”, che scopre la tenerezza, “il calore bianco” – di Calvino – nel Novecento. 

Nel “nascondersi dietro il fantastico”, pur essendo permeato della sua razionalità, come ricorda, di Calvino su se stesso, Valerio Mastandrea, ripercorrendo il pensiero trascritto,  durante e dopo la proiezione, in Violante Placido, al contempo, ascoltiamo, nel film, sempre un flusso, ma – stavolta e talvolta – come se fosse la scrittura stessa che stesse porgendo il suo orecchio verso lo scrittore. E lo scrittore, dal canto suo, continua a parlare, come se dovesse scrivere quel che pensa fino alla fine.

Italo Calvino, nel film, ci invita  – quindi – ad “operare” (perfino nella solitudine) e a indugiare tra illuminanti riflessioni sulla poubelle, sulla politica, sempre meno lontana, e su quei leggeri spostamenti, assieme a Resnais nel 1957, in direzione del Canto dello Stirene.

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