Un film di Francesca Comencini
Realizzare un film tratto dal romanzo fantastico per ragazzi più venduto a livello mondiale è un progetto ambizioso, da levigare come quel pezzo di legno raccolto da Mastro Ciliegia e levigato da Mastro Geppetto.
Eppure sul set arriva alla troupe questa frase “Prima la vita, poi il cinema”, pronunciata da Luigi Comencini (Fabrizio Gifuni) per rimproverare il suo aiuto regista prepotente e irriconoscente verso il paesino che ha ospitato l’intera troupe.
La severità per il mondo adulto e l’adorazione per i bambini, con una focalizzazione quasi vischiosa per sua figlia: mostrata all’inizio con le mani sporche di ceramica dopo aver realizzato un bassotto in miniatura, che ritiene Lucignolo il suo personaggio preferito in Pinocchio, che prova terrore alla visione dell’illustrazione grafica del pescecane.
Essa è rappresentata cinematograficamente come transizione di Piazza del Popolo e di Piazza Navona. Una sovrapposizione tecnica che anticipa quello spaesamento interpersonale, dopo l’evoluzione da bambina a donna, tra splendenti e decadenti illuminazioni del nido familiare, con l’impronta del Fallimento.
Cos’è questo Fallimento? È il profondo mutamento di due corpi, di due anime, racchiuse nel binomio di vicinanza affettiva, che attraversano i loro vissuti a seconda dei contesti, relegati nella significazione morale dei campi totali. Una ripresa del mondo che decreta la bellezza del mestiere di entrambi i protagonisti. Una bambina alla ricerca della sua verve creativa, una giovane adulta sopraffatta dalla tossicodipendenza, un viaggio parigino per rallentare quella fretta di identificarci in una vocazione, per afferrare i giusti momenti mirati alla contemplazione, al mistero delle coincidenze di certi incontri.
Comencini traspone alcune fasi autobiografiche per definire il rapporto amorevole tra padre e figlia, non privo di contingenze dolorose, giunte in un clima politico disilluso dal boom economico e dagli anni della contestazione, e poi traumatizzato dagli anni di piombo, con i passaggi televisivi degli eventi tragici che vanno dalla strage di Piazza Fontana all’assassinio di Aldo Moro.
Si ritorna al ritrovamento degli anni Settanta, già messo in luce nella linearità cronologica del cinema italiano, con la coscienza storica di Marco Bellocchio e le incisioni in animatic di Simone Massi.
Fabrizio Gifuni è la mimesis fotogenica di quel risveglio mnemonico, con riattualizzazioni volte alla serietà e alla responsabilità, arricchita ultimamente con la proiezione estiva di Todo Modo (1976) di Elio Petri, in cui Gian Maria Volonté trasmette la disintegrazione utopica del Novecento.
Le testimonianze nonnesche di quello che eravamo noi artefici e spettatori della settima arte, del grande patrimonio che abbiamo conservato: l’inclinazione al fantastico di Pinocchio (1911) di Giulio Antamoro, la fascinazione erotica tramandata grazie a Brigitte Heln nei panni della regina Antinea de “L’atlantide” (1932) di Georg Wilhelm Pabst. Senza dimenticare i pianti commossi di un artista ormai anziano che ha vissuto la libertà, espressa in un pianto commosso per la visione del finale di Paisà (1946) di Roberto Rossellini, necessaria per un’epoca regolata alla rovescia e sottomessa alle risurrezioni autocratiche.
La frase citata all’inizio ritorna più volte attraverso nuovi accadimenti, in particolare nella mancanza di accettazione del padre-regista, sostenitore del cinema popolare, verso la tendenza dei nuovi giovani di inserire l’autobiografia, elemento che Francesca plasmerà.
Che cos’è il cinema? Luigi ci ricorda la volontà di separare l’arte dalla vita, di avere il coraggio di rimanere a testa alta, di far stare in piedi un film. È quella parte appagante che ci accompagna. È quel rifugio che ci offre alternative percezioni del mondo. È quel complemento che non deve offuscare quelle sospensioni che ci rigenerano costantemente.
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