Dostoevskij (2024) Un film di Fabio e Damiano D’Innocenzo

Dostoevskij (2024) 

Avatar Giada Ciliberto

Dostoevskij (2024) è il film d’autore – girato il 16mm – di cui (non solo) la nostra generazione sentirà di aver avuto bisogno.

Prima di entrare nel cuore pulsante degli eventi con il soprannome che Enzo Vitello (Filippo Timi) sente di dare all’introvabile serial killer di Dostoevskij (2024), avviando così la narrazione in due atti da un punto focale preciso, in Memorie dal sottosuolo ricordiamo che Fëdor Dostoevskij scriveva:

L’uomo ha sempre avuto un certo timore di questo due per due quattro, e io lo temo anche ora. Mettiamo pure che l’uomo non fa che cercare questo due per due quattro, valica gli oceani, sacrifica la vita in questa ricerca, ma di scoprirlo, di trovarlo effettivamente, vi giuro che ne ha come paura. Infatti egli sente che, non appena l’avrà trovato, non ci sarà più nulla da cercare.

La scelta dei due atti in Dostoevskij dei gemelli D’Innocenzo appare indispensabile per due motivi: per questioni di svelamento connesse al profilmico, e per delegare – in potenzia e a posteriori – un ramificato spazio all’interpretazione dello spettatore.

Entrambe le premesse, unite sul finale, presentano allo spettatore un crime che potrebbe definirsi perfetto – per alcune scelte formali – oltre che estremamente coraggioso. 

Alcune questioni sono piccole parentesi, appena inabissate fonti di ambiguità derivate dalle connessioni tra i personaggi, e lasciano uno spiraglio: uno scenario profondamente oscurato dall’inchiostro sulla pagina che appare, allo spettatore, con un foro aperto in divenire in cui far trapelare ulteriori, possibili, dubbi, ipotesi, suggestioni e interpretazioni.

Solo poco ta Iscriveva ancora F. Dostoevskij, in Memorie dal sottosuolo, 1864] mi sono deciso a rammentare certi eventi del passato, ma adesso che soltanto li rammento, ho deciso di metterli sulla carta, voglio fare appunto questo esperimento: è possibile essere completamente franchi con se stessi e non aver paura di tutta la verità?

Il triplice tema dell’abbandono che si riflette nei luoghi e negli oggetti abbandonati, in quadri urbani in direzione extraurbana (in cui la natura sconfina), è forse la prima eco di una consapevolezza. Una paura di annegare che, in alcuni momenti, sembra ricordare, (o forse tanto più evocare) nello sguardo dello spettatore, un’evoluzione nuova, poiché tanto contemporanea quanto – talvolta – oniricamente distorta, nella sua essenza, della fotografia ghirriana.

  • Il non-luogo rappresentato dai due poeti lancia i semi per una terza via, parallela ai tre svelamenti dell’abbandono e che si presenta al limite tra il restare e il dirigersi verso un altrove sempre meno illuminato.
  • Tre piani temporali si riuniscono nell’Ora, quando lo spettatore ha l’impressione che quel che accade nella pellicola stia accadendo anche, in quel momento, da qualche parte fuori dalla sala: innescando la percezione di una qualche simultaneità.
  • Il non-luogo rappresentato dai due poeti lancia i semi per una terza via, parallela ai tre svelamenti dell’abbandono e che si presenta al limite tra il restare e il dirigersi verso un altrove sempre meno illuminato.

Azzurro arancione e furente purezza al vento: Ambra Vitello.

È uno sguardo, quello di (Carlotta Gamba), che almeno per tre volte trapassa lo spettatore. Soltanto attraverso il suo sguardo, la sua aggressiva purezza, dalle poltrone del Cinema Troisi si trova la forza di guardare una simile scena. Ambra guarda verso la camera dando il coraggio allo spettatore di continuare a vedere.

Di capire che c’è tanto di realtà, nel film dei fratelli D’Innocenzo, quanto di scrittura che – senza retorica – diventa azione.

Questo perché, nell’interpretazione realistica degli attori, si ha la costante percezione che si tratti di una storia, di un racconto che ti forza ad abbassare la mano che hai appena alzato d’istinto per coprirti gli occhi avvertendo l’esigenza di voler continuare a guardare.

D’effetto anche la riflessione sul maschilismo, cruda e disincantata, che si inserisce durante l’incontro tra Enzo Vitello e un testimone che sa fare solo una cosa: “cucinare” Dalle prime frasi, dal roboante tono di voce di Enzo Vitello, si intuisce che si è finiti (precipitati) in qualcosa di primordiale.

Dalla prima estenuante resistenza alla primordiale apnea nell’incipit, il film sollecita e infastidisce lo spettatore, la volontà di un contrario respiro acquatico dà inizio al racconto.

È forse troppo facile dare al pubblico quello che inconsciamente desidera. È indispensabile invece, per alcuni, rappresentare l’inesauribile ricerca della verità.

Un bar senza insegne che è solo luce accoglie Antonio Bonomolo (Federico Vanni). Battute e piccoli gesti, cenni, sono il gancio minuziosamente trascritto degli eventi a cui lo spettatore si trova ad assistere, ritrovandosi di fronte poi a ciò che non si sarebbe mai aspettato e – al contempo – riconoscendo le tracce delle sue prime sensazioni a tu per tu con la presentazione del caso.

Lasciando, infine, il completo svelamento del triplice abbandono al secondo atto, assistiamo – gradualmente all’ambiguità, anche, di Fabio Bonocore. Quando una riflessione del più giovane collega di Enzo Vitello (interpretato da Gabriel Montesi) rivela – in Dostoevskij – una mezza consapevolezza di un altro interessante binomio, quello tra intuizione / azione.

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