Diamanti (2024) Un film di Ferzan Özpetek al Cinema Giulio Cesare di Roma

Diamanti (2024)

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In Diamanti (2024) di Ferzan Özpetek magia e visione abitano didascalie che sono state fatte per un unico scopo: quello di essere tradite. 

Dopo aver attraversato dense atmosfere durante il pre-show in sala, Diamanti (2024) di Ferzan Özpetek, anche a giorni di distanza dalla visione, non può che presentarsi come uno straordinario film collettivo.

Özpetek: «Scoprendo il suo film ogni giorno», così come ricordano le attrici in sala, ripercorrendo il loro periodo di lavorazione, presenta al pubblico un «caso unico». Un film che – oltre a essere una dedica alle nuove generazioni e una stratificata e sofisticata riflessione sul microcosmo dei costumi – è un’occasione per sorprendere se stesso e quindi anche tutti coloro che avranno la fortuna di vedere, per poco più di due ore, attraverso i suoi occhi.

Vedere con i suoi occhi che tessuti e visioni sono la prima carne delle attrici in scena, e quindi vedere anche in che modo quella pelle, che agli occhi si presenta tanto fantasmatica quanto tangibile, possa separare l’interno dall’esterno. Özpetek ci lascia comprendere come, partendo da una visione iniziale, anche un film si possa indossare. Come un film possa farsi abito e come possa, nelle sue pieghe, nei suoi strati, nelle sue singole linee percorribili ed invisibili cicatrici, raccontare una storia corale. 

In Diamanti (2024), magia e visione abitano didascalie che sono state fatte per un unico scopo: quello di essere tradite. 

Ai problemi intimi di Alberta (alias Luisa Ranieri) e Gabriella (alias Jasmine Trinca) rispondono sempre due diverse reazioni. Reazioni che innescano litigi, che scoprono debolezze presenti e passate, che invitano noi ed entrambe le donne a lasciarsi andare. Diamanti (2024) è un film che oltre a essere poetico è anche politico e mostra come entrambe le cose non possano prescindere una dall’altra.

Ferzan Özpetek trasporta nel film la storia di due sorelle, due costumiste, la cui risonanza è rintracciabile nella sua antecedente opera letteraria dal titolo Come un respiro (2020). Il regista, in questo caso, estende i suoi bordi, come in un abbraccio, attraverso la sua firma che trapassa il copione, la sua regia che dialoga con le attrici, presentandosi infine come un ramificato, e mai lasciato a se stesso, atto di amore. 

«Quando Ferzan ti dirige, ti ama», spiegano le attrici fuori dalla sala, mentre nel film sono tutte sedute intorno allo stesso tavolo, in esterno, e poi coinvolte, dall’interno, nella matriosca finzione del gioco di una sartoria teatrale. 

Uno dei momenti più sublimi della visione si ha quando la costumista del film nel film entra in scena a spiegare come adattare, nel pratico della lavorazione dei tessuti, le sue visioni, trasfigurate, in modalità immersiva, da un confronto iniziale col regista, che stavolta sembra raffigurare sottoforma di alter ego ozpetekiano. Lo spettatore si sente quasi chiamato in causa, invitato a prendere parte, da quel momento, anch’esso alla creazione. 

Ciò accade anche durante l’interruzione della lettura del copione a partire da un momento di forte impatto nella finzione. Le protagoniste, sempre sotto la macchina da presa, tornano – per un attimo – a essere attrici, e non solo protagoniste di una parentesi meta-cinematografica, ma soprattutto colte nel loro lampo di spontanea emozione. Come a dire: cos’altro è, il compito delle attrici, se non quello di empatizzare col proprio personaggio? 

Passando per gli occhi inumiditi dei personaggi si ritorna nuovamente ai bozzetti in sartoria, ognuna con la sua storia, per scoprire come decorare magnificamente e d’istinto un corpetto possa voler dire anche voler creare distanza tra il tuo corpo e quello dell’altro, di come la magia della lavorazione dei tessuti possa passare per un elegante desiderio di libertà, quello di strappare senza compromessi le balze ingombranti della tradizione per lasciar fluire il proprio rosso sangue anche attraverso le stoffe, per scegliere un mantello al posto di uno strascico, per trasformare il suo peso in agilità, mentre perline decorative, predisposte alla caduta, decidano poi di rimanere sospese, come involucri trasparenti e brillanti di una caramella donata da una perdita passata, per ravvivarne invece che scandirne l’eco dell’anima spezzata che le indossa.

In Diamanti (2024) la magia veste in piccolo anche la fortuna sottoforma di biglia di vetro. Dentro un pesciolino rosso da donare, Mara Venier ad esempio, nei panni di Silvana, si configura come la voce che non solo parla, ma che sa parlare al bambino. 

Milena Mancini, invece, nei panni di Nicoletta, è la voce che fa difficoltà a trovare la sua strada, dopo averla dimenticata viene rianimata da un timbro corale, che non è nient’altro se non il desiderio del risveglio del suo stesso coraggio.  

La parola Sorellanza riecheggia non solo durante la visione, in maniera indiretta, ma anche tramite la voce delle attrici anche quando queste ultime si trovano a parlare del film fuori dal film. 

Scardinando il pregiudizio di un film con molti attori, Özpetek rende il suo lavoro ambientato negli anni ‘70 e girato nella storica Sartoria Tirelli, a Roma, un unicum sul panorama nazionale, e forse internazionale, realizzando un film con 18 attrici e sottolineando nel meta-filmico, e non solo, come non sia affatto un problema quello di andare tutte d’accordo sul set. 

Mentre le costumiste si confrontano ironicamente sull’impressione che hanno su alcune comparse che entrano in scena nella sartoria – «Non vede, non sente, non capisce. Sembra che l’abbia partorito un uomo» – alla chiave di sopravvivenza nella vita e di buona riuscita di qualsiasi indimenticabile commedia si unisce un altro elemento importante che fa la differenza con il passato del regista.

L’amore tra due amanti ad esempio, in Diamanti (2024), fa un passo indietro, forse per la prima volta e mai con così tanta decisione nella filmografia ozpetekiana, svelando un nuovo modo di passare tra i tessuti. 

Immerse in una fonosfera che talvolta lascia allo spettatore la possibilità di ascoltare in lontananza, oltre la porta, i grilli della sera, che contaminano un dialogo tra sorelle animato da un sentito grazie, anche i silenzi tra i personaggi, che permeano la scena, sembrano abitare una nuova, e ancor più profonda, intenzione, rispetto – ad esempio – a quel che poteva percepirsi tra Alessandro e Arturo ne La dea fortuna (2019). 

Özpetek cuce con ascolto e ispirazione come un sarto per il cinema e per il teatro, affiancandosi alle sue attrici e lasciando ai pregiudizi il tempo che trovano, scartandoli nel cestello dei tessuti strappati, talvolta per disincanto, e riprendendoli a notte fonda, forse in segreto, per dargli nuova vita. 

Le silenziose frustrazioni, e i luoghi comuni, che aleggiano ancora oggi a minare superficialmente l’indissolubile legame tra cinema e teatro viene qui antropomorfizzato dalla presenza di due “prime attrici”, che si ritrovano infine a brindare ridendo delle loro insicurezze travestite da bugie appena disinnescate – proprio come accade tra Silvia e Elena in Allacciate le cinture (2014). Stavolta, però, l’amicizia – in Diamanti (2024) – è una metafora e Kasia (Sofia) e Carla (Alida) brindano: «A noi, al cinema e al teatro, sempre».

Mentre un filo quasi invisibile risolve in tre parole il malessere di un bambino che si ritrova ad ammettere a tavola: «Non so cos’ho», e ad essere finalmente compreso dai propri genitori, alla pillola blu e alla pillola rossa si sostituiscono i bottoni blu e i bottoni rosa. Sulla violenza di genere e l’incomunicabilità tra genitori e figli non si è forse mai planati con così tanta lentezza e sorellanza in quel che viene omesso nel quotidiano, per difendersi o per vergogna sul posto di lavoro, e poi con così tanta leggerezza pronta a eviscerare quella taciuta angoscia.

Nel film Diamante è femminile, contrariamente a quanto avviene nelle declinazioni di altre lingue. 

Diamante è il primo nome di una lingua nuova, viva e universale, della quale bisognerebbe iniziare ogni giorno a prendere appunti. 

 «Qualche giorno fa è uscito a comprare le sigarette e non è più tornato».

Nelle scene corali lo sguardo del regista resta – come sempre – sui personaggi. 

Özpetek nei panni di se stesso attraversa la casa, immagina, sente, ascolta le voci dei personaggi divenuti nient’altro che un’eco fuoricampo. Nella casa vuota la linfa ispiratrice filtra sottoforma di spiragli di luce, di quella polvere luminosa che appare nella descrizione degli abiti all’inizio del film dando, sul finale – allo spettatore, un’impressione di perfetta ciclicità. Di qualcosa che resta, sempre. Di una qualche Eternità (altra parola chiave del film) che va oltre la visione stessa.

«Conta solo quello che resta dentro di noi. Me lo hai insegnato tu.»

Appena fuori dalla sala del Cinema Giulio Cesare di Roma, un microfono si accede e la luce che accompagna una camera a spalla inquadra uno spettatore che, entusiasta, dedica questo film «ai giovani, specialmente». 

Al termine della visione, varcando la porta del cinema, ho avuto come un’illuminazione. Ho capito che fino a quel momento non sapevo scegliere il mio film preferito (di Özpetek) perché questo film doveva ancora essere fatto. Sono orgogliosa di lui, non so come dire, ho detto al mio compagno di visione. Perché se scavalchi la barriera della finzione in questo modo, e se l’accetti con cosi tanta naturalezza, puoi raccontare tutto. E questo tutto, in questo caso, racconta quanto questo film sia un film difficile da realizzare.

Dopo La finestra di fronte (2003), infine, questa volta il ritorno di Giorgia nella colonna sonora dell’ultimo film di Özpetek è meraviglia accompagnata da Giuliano Taviani e Carmelo Travia e talvolta costellata da sonore citazioni meta-cinematografiche di grandi capolavori della storia del cinema. A voi scoprire di quali si tratta! 

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