In un continuo fluire, durante la visione e nella post-proiezione di Desert Suite (2024), si ricorda come l’inizio e la fine possano confondersi, e di come – nel fare Cinema – si possa preservare, innanzitutto, un senso di Comunità.
Continuando col verbo potere, come in una danza, si accede alla visione. E si ricorda, ancora, di come “La visione” sia – essa stessa – un danza.
Nell’ascolto e nella visiva mimesi di assemblaggi metallici, nell’incipit di Desert Suite (2024), le inquadrature seguono la costruzione di alcuni grattacieli nella parte urbana della città. A partire, poi, dalla sinestesia e dai contrasti di luce inizia, invece, a depositarsi nel sentire dello spettatore un crescendo d’inquietudine.
Un crescendo che vedrà la sua manifestazione definitiva nel cuore del film, grazie a un ribaltamento di prospettiva. Un capovolgimento – quasi impercettibile nella resa, ma proprio per tal motivo di forte impatto – che sembra essere, a posteriori, l’inizio di un’ulteriore angoscia alimentata dalle moltiplicazione di catastrofi rivelate fino a quel momento dall’occhio della camera.
Se è vero che nella “discrasia tra il vedere e l’enunciare” – in Desert Suite (2024) – “c’è bisogno di immagini che non siano riconducibili a enunciazioni”, già dal titolo si possono cogliere quattro traiettorie sorgive per l’inesauribile ricerca della verità di questo film.
[Suite] il movimento e l’essenzialità dell’elemento musicale per la formazione dell’immagine e [Desert] l’attraversamento fisico, e visivo, dello spazio e la sua profondità acustica.
Alla sensazione, che si prova, di essere immersi in un dipinto espressionista in movimento, tra il paesaggio e le figure di un “mondo disciolto”, si accompagna la profondità di un “deserto sonoro”, di un’immagine che parli da sé tramite l’attivazione dei sensi e “che celebri il suo addio al linguaggio”.
Questa scintilla della “prossimità e distanza nello stesso momento” diviene sinonimo di vedere in profondità. E per farlo bisogna lasciar emergere tutto in superficie, bisogna “tirarsi fuori da questo fagocitare continuo del movimento”.
Nel parlare di Sospensione, Fabrizio Ferraro, ci invita – con quest’opera – ad essere attivi nel “lavorio continuo del voler vedere” e ci ricorda che “la diretta è una traiettoria fallace”.
Forma e contenuto sembrano non potersi scindere, come accade per le dimensioni – che nel film – sono, tutte, in potenza, in connessione con la nostra vita e che rivelano il desiderio stesso del film di “tener ferma la scia dell’immagine”.
“C’è quantomeno una duplice storia in ciascuna immagine” e allora, in un film “che prova a demilitarizzare l’immagine”, nessun confine è stabilito. Non esiste alcun fuoricampo, come può ricordare la presenza di una voce totalmente interiore, in movimento, durante la visione oppure lo sconfinamento visivo e sonoro di un’immagine dal monitor.
Quest’impossibilità di etichettare un’immagine rimanda allora all’indefinibile, all’imprevisto, all’infinito che nel film di Fabrizio Ferraro rimanda, nella sua totalità, al cinema di poesia.
La riflessione sul movimento in Desert Suite (2024) procede come una traccia che si desidera incontrare, e dal movimento relativo si accede quindi al movimento assoluto in qualità di soggetto.
Nell’Atto del prodursi e del Cinema del movimento, l’immagine lascia aperta la possibilità di accedere a una dimensione non nuova dell’immagine stessa, ma a qualcosa di “Altro”. A uno stallo dell’elemento, a una sospensione, a uno straniamento in cui può, effettivamente, comparire qualcosa di Altro.
Sul modo di vivere le immagini nel film, secondo i filosofi in sala, si accede all’evocazione di “una dimensione videoludica fino al fallimento della completa digitalizzazione”. Fra le catastrofi vi è, ad esempio, l’assuefazione, dalle immagini come dalle sostanze.
Nel frattempo l’elemento della natura è “sul punto di disfarsi”, basti pensare alle vigne deserte e aride. Eppure l’immobilità di un mulo è un indizio che risulta infine impossibile da ignorare.
Dall’osservazione della dimensione siderale della città di Rotterdam, vista dall’alto, si plana sulla possibile definizione transitoria di un film sull’After life, dove più piani esistono contemporaneamente.
Questa condizione della sovrapposizione dei piani allude infatti a uno spazio in cui può esserci continuazione nonostante tale possibilità non contempli in se stessa il ritornare della vita.
Potrebbe trattarsi allora di sottolineare quel “qualcosa di sorgivo” che emerge – ad esempio – dall’assimilazione della visione, in quanto sentire, dello spettatore “anche nella condizione zombie” in cui si rivelano i protagonisti. Chi va, ad esempio, nell’apparente profondità, senza voltarsi, incontro al suo destino, e chi, vedendo le immagini della distruzione, ricorda al suo interlocutore che ce ne sono altre, a disposizione, e sempre di peggiori.
Le immagini di distruzione d’archivio o della realtà filmata che accade – come nel caso dell’incendio di Bagnoles – rivelano una stratificazione di catastrofi in divenire osservate o attraversate dall’anonimato dei volti postumani che abitano il film.
Due dettagli, in particolare, non poco significativi, questi ultimi, e che, se uniti al crescendo dell’angoscia (alla voce intima in movimento e all’utilizzo del bianco e nero come punto di ritorno della memoria, spartiacque e ribaltamento nel film) non possono che ricordare allo spettatore per l’effetto che questo genera nel suo sentire ad esempio Hiroshima Mon Amour (1959) di Alain Resnais.
Alle immagini di repertorio si affianca il repertorio dell’accadimento. E – a conferma di questo – si può ritornare, allora, a quanto emerso durante il confronto fuori dalla sala, nel post-proiezione, sull’esperienza vissuta, in primis, dagli attori.
Quel che suscita molto interesse a osservare da fuori il sostrato del film, e che emerge spontaneamente anche nel corso della visione – riguardo, ad esempio, al lavoro degli attori – è qualcosa che volontariamente sembra prescindere la recitazione.
Nel film di Fabrizio Ferraro non si tratta infatti di recitare ma di “sentire davvero il tempo” mentre si è catturati dall’occhio della camera, si tratta – anche per chi agisce – di immergersi “nella realtà che accade”.
Due binomi propositivi si susseguono nella preparazione degli attori e nella realizzazione del film. Dal racconto dei giorni delle riprese, ad esempio, sembra emergere l’iniziale e preziosa soggezione di uno degli attori di fronte alla macchina da presa. Questa, però, lentamente, accompagnata da molta energia, si affievolisce, per trasformarsi, successivamente, in una stanchezza altrettanto preziosa e in una crescente sicurezza dell’attore stesso.
Ballare per ore prima di una scena, ad esempio – o camminare per mesi per arrivare a “quella camminata” – può coincidere con la manifestazione, mai lasciata a se stessa, del personaggio, e a quanto riesca a mostrare, nei dettagli, del frutto di tale andamento anche un solo long take dell’opera.
Potrebbe non essere un caso, allora, se i commenti dei protagonisti, sulla bellezza della luce del tramonto (reale in una delle scene – tra i contrasti analogici), ricordino così tanto, allo spettatore, quel modo istintivo che si ha nel contemplare quel che nel mondo fa parte, ed è specchio, del nostro sentire, e che in Desert Suite (2024) resta come immacolato, preservato, nell’essenza agita dagli attori.
Tutto ciò sembra avere molto a che vedere col saper cogliere una caratteristica, una particolarità dell’attore per poi isolarla, e infine esaltarla attraverso il lavoro di preparazione e la camera.
Desert Suite (2024) di Fabrizio Ferraro invita a vedere contemporaneamente (in più direzioni) e ci mostra – al contempo – cosa voglia dire “lavorare le immagini per amore”.
“Non c’è mai una linearità” in questo viaggio filmico. Si tratta – come ricordano i filosofi presenti in sala – di un “Viaggio di fuga immobile” quando l’intermittenza è continua e “La fuga non è altro che un’attesa.”
A due diversi processi di ricostruzione della città [es. Rotterdam / Varsavia], si alimenta la possibilità di stare nel mezzo. Di non voler quindi né ricostruire tutto da zero, ignorando il passato, né di provare a ricostruire fedelmente qualcosa di distrutto e non replicabile ignorando il presente. Una metafora, forse, di quel bisogno di indagare l’immagine per “far riemergere tutto in superficie”, di dare precedenza all’immagine sfocata per lasciare aumentare la profondità.
Soffermandoci infine su quest’addizione analogica nel formalismo, e riflettendo – quindi – sui vari livelli di messa a fuoco nel film, sul binomio – ad esempio – lente / camera, luce / riflesso (per andare, ad esempio, oltre la meterialità del vetro, dello specchio), si scopre come la profondità, in potenza, delle immagini di Desert Suite (2024), sia generata dall’impossibilità della messa a fuoco e che quindi possa anche essere sinonimo di tale illuminante riflessione:
“Più c’è la definizione, minore è la visione” e “minore è il sentire.”
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