Presentato alla 77esima edizione del Festival di Cannes dalla regista e sceneggiatrice vincitrice del Premio Oscar per il miglior cortometraggio con Wasp (2005), il quinto lungometraggio di finzione di Andrea Arnold ci ricorda che siamo vivi e che se ci siamo incontrati è stato per un motivo.
In concorso alla 22esima edizione di Alice nella Città, Bird (2024) pecca volontariamente di immediatezza sin dalle prime inquadrature, proprio come se volesse mimare, con la camera, il gesto del volo, l’essere scostante di un uccello.
La camera segue le intenzioni della protagonista, di nome Bailey, che – nei suoi dodici anni – è abituata a cavarsela da sola. Al tempo stesso, però, la camera diventa anche specchio di una distorsione. Diviene il suo occhio e – non solo apparentemente – il suo tempo di ripresa.
Seguiamo la quotidianità di Bailey mentre schiva episodi di violenza in un’escalation di crudezza fisica e psicologica, finché qualcosa non plana dall’alto per proteggerla. Bird, però – interpretato da un etereo e intenso Franz Rogowski – non è lì per lei, eppure restituisce allo spettatore la potenza della fragilità che, a poco a poco, chissà se riconoscendosi in un’adolescenza dimenticata, abbraccia la protagonista.
Bird arriva come una folata di vento che destabilizza. Plana nel verde al termine di una nottata trascorsa, da Bailey, in fuga dalla propria casa. Il suo personaggio ricorda, nella visione, l’interesse di Bailey racchiuso nella sua interazione con i gabbiani, nella sua ciclica osservazione del mondo animale, nella preservazione delle api e nell’incantamento generato dall’indulgenza verso le farfalle.
Il film scava nel realismo sociale, riflettendo su piccoli dettagli di un’umanità che prende con dovizia il largo per mostrare contemporaneamente diverse situazioni che contribuiscono a creare il microcosmo-morsa della protagonista, accusare colpi, per poi scioglierlo, infine, in alcuni momenti simbolici e far riflettere – in piccoli barlumi di sentita comprensione – su ciascuno dei punti di vista dei suoi personaggi principali osservati dagli occhi di Bailey.
Al realismo sociale e poetico di Andrea Arnold, in Bird (2024), si affianca inoltre una vena meta-cinematografica connessa al voler dare priorità alle sensazioni della protagonista attraverso una luce proiettata in verticale sulla parete della sua stanzetta. L’immagine catturata poche ore prima con il suo telefono viene irradiata in modo sbilenco, ricreando, in un ambiente nutrito da sensi di colpa, quel che la sorprende, e che sorprende anche noi, dopo essere riuscita a scappare da chi vorrebbe decidere per lei, ritrovandosi a varcare quella porta anche con la fantasia.
Le inquadrature mobili sembrano enfatizzare gli stati d’animo della protagonista, il suo desiderio di libertà e il suo interagire liricamente con la Natura. Nonostante quest’ultimo sia uno degli elementi che più frequentemente si rintracciano nelle opere della regista, il fantastico didascalico, grazie alle azioni di Bird, evidenzia qualcosa che sarebbe impossibile da rappresentare senza dare l’impressione che si tratti di qualcosa di inquietante e che, invece, in questo caso si presenta nelle vesti piumate dello straordinario.
Bird interviene nella vita di Bailey senza sapere esattamente dove si trova. Eppure, nonostante quest’ultimo sia alla ricerca di risposte, diviene – per Bailey – il primo riconoscimento della bellezza, essenziale perché primo rispetto a coloro che la circondano e al di fuori di lei.
A seguito di una preliminare reazione di ostilità, Bailey torna a pensarci in un secondo momento e ci aiuta a riconoscere questo suo pensiero come se fosse molto simile a una tangibile rassicurazione. A qualcosa che culla, che arriva poco prima di addormentarsi. Grazie a Bird possiamo dormire tranquilli. Qualcuno – finalmente – ci dà speranza e coraggio, ci aspetta per restituirci il giorno, oltre la schiera uniforme dei palazzi, e veglia su di noi.
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