Mentor (2024) al MedFilm Festival di Tinkara Klipšteter

Mentor (2024)

Avatar Giada Ciliberto

Per Klipšteter una sola lettura di Mentor (2024) può essere la chiave per tutte le altre: «Non c’è un buon modo per essere Tartuffo», sia dentro che fuori la scena.

Mentor (2024) è il terzo lavoro della regista slovena nonché il suo cortometraggio di laurea realizzato con il sostegno dell’Università di Lubiana. 

Nina e Alen stanno provando la scena della seduzione tra Elmira e Tartuffe, quando – trovandosi in difficoltà con la performance – il regista teatrale (investito anche del ruolo di insegnante) interviene nella scena, nelle vesti di Tartuffe, per dare il cattivo esempio. 

Grazie alla scelta di una ricercata cornice metacinematografica, il film di Tinkara Klipšteter è in grado di rievocare alcune delle più iconiche immagini provenienti dal set di Marie Antoniette (2006) di Sofia Coppola o, ancora, la coinvolgente messa a fuoco degli attori, seduti fra il pubblico in teatro, presente ne Les Amandiers – Forever Young (2022) di Valeria Bruni Tedeschi.

Il film di Tinkara Klipšteter lascia entrare lo spettatore, in medias res, «in una situazione molto comune»; nella gestione degli spazi interiori non solo di un set, ma anche della vita di una giovane donna impegnata a confrontarsi con le sue passioni (in questo caso il teatro e la recitazione) e a riconoscere i possibili ostacoli che potrebbe incontrare sul suo cammino. 

Presentandosi come un film corale, poiché predisposto anche al dialogo con il pubblico in sala e a rendere attivo lo spettatore, Mentor (2024) si sgancia con coraggio dai luoghi comuni che favoriscono la narrazione stereotipata della violenza di genere e dona invece al pubblico una chiave di lettura estremamente sottile, non fraintendibile – grazie all’animazione dei suoi ruoli, e indubbiamente di forte impatto. 

Mentor (2024) attraversa la presa di coscienza di Nina, una giovane attrice, che ha appena subito un abuso, marcando – nell’ultima parte del film – la distanza che può sempre intercorrere, nella vita di ciascuna persona, tra l’episodio di violenza in sé (in questo caso subito in pubblico) e la (successiva) reazione della donna ritrovatasi bruscamente da sola, in un momento di distesa quotidianità, di fronte a tale consapevolezza.  

Estratti dalla presentazione e dal dibattito post-proiezione del film di Tinkara Klipšteter del 12 novembre al The Space Cinema di Roma:

–       Perché la scelta del teatro? 

«Inizialmente ero molto spaventata ma volevo fare giustizia. Ho pensato che era una cosa importante e (dunque) che volevo farla».

La scelta di inserire nel quadro filmico una scena centrale de Il Tartuffo o l’Impostore (1664) di Molière, nell’opera di Tinkara Klipšteter, non ha soltanto a che vedere con la volontà della regista di trasportare alcuni temi della commedia in cinque atti del drammaturgo francese nella contemporaneità, quanto – piuttosto – di abbracciare, attraverso il pubblico in sala quanto in quello inserito nella scena, la condizione della donna nell’oggi, rifacendosi alla propria esperienza personale, in qualità di attrice (e poi di cineasta), attraverso il cinema e il teatro. 

Il linguaggio metateatrale, non a caso «molto legato alla direzione degli attori» nella sua realizzazione, subisce appositamente la prima sconfitta della messa in scena dell’opera di Molière – nel film – che, per lo svolgimento degli eventi nel profilmico tra l’attrice e chi le sta intorno, sembra avere tutte le prerogative necessarie per non arrivare alla sera della prima. 

Quella del Tartuffo, per Klipšteter, ha rappresentato (quindi): «La giusta situazione. Una scena centrale dell’opera (originale) può essere (così) interpretata in diversi modi».

O meglio, per Klipšteter una sola lettura può essere la chiave per tutte le altre: «Non c’è un buon modo per essere Tartuffo» dentro e fuori la scena, e sia che si tratti dell’allievo che dell’insegnante. E, in particolar modo, «essendo un insegnante», nell’illuminante visione di Klipšteter «non esiste un buon modo per essere Tartuffo». 

Al contempo la scelta della scena dell’opera non è casuale. In quanto rappresenta una buona possibilità di poter “forzare” alcuni meccanismi, relativi al controllo e alla prevaricazione dell’Altro, che – in questo caso – permangono in un ambiente claustrofobico, in cui si ha la sensazione di sentirsi in trappola e che è descritto nel film di Klipšteter come uno spazio condiviso all’interno di una sala prove del teatro. 

Il film di Tinkara Klipšteter mette in bocca a un uomo le crude parole di un esempio di maschilismo utilizzandole con naturalezza nel suo dissestante invito a insegnare alla donna che sia giusto non riuscire a pensare lucidamente di fronte a un uomo. 

Il messaggio del film però si fa più sottile, stringando il nodo di queste affermazioni fino a lasciare che si strozzino da sole sulla bocca del mandante; le frasi tipiche della violenza di genere si trasformano nella luce che avvisa, informa e commuove lo spettatore e sono quelle di una regista, di «una giovane donna che vuole fare le cose in un modo diverso».

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